A. B. Guthrie | L’ultimo serpente

Ci sono epoche che vorrei aver vissuto, periodi storici che mi affascinano così tanto che quando osservo un dipinto o una fotografia del tempo mi ritrovo a sognarlo ad occhi aperti. Leggendo “L’ultimo serpente” di A. B. Guthrie (trad. N. Manuppelli, 149 pagine, 16.90 €) e lasciandomi coinvolgere da ogni racconto mi pare averlo vissuto, almeno con l’immaginazione, emozioni e sentimenti, forti e aspri come le terre dell’ovest.

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A volte si lasciava andare ai ricordi e non vedeva né sentiva gli altri intorno a lui, e non rispondeva se qualcuno gli diceva qualcosa. Era tutto a posto. Non gli importava che dubitassero delle sue storie o che ridessero di lui o delle sue idee. Un uomo dopo aver passato abbastanza tempo da solo là dove nessun altro uomo bianco aveva mai messo piede, cominciava a pensare in modo differente (…) Si sentiva una cosa sola con quelle montagne e l’enorme cielo e i venti solitari, e anche con gli indiani e gli animali, ed era un po’ come condividere ciò che essi sapevano, come se non ci potesse essere segreto che non gli venisse sussurrato, come quelle cose segrete che stava sentendo anche adesso. [L’ultimo serpente, A. B. Guthrie, trad. N. Manuppelli]

Immaginate di scendere con un salto dalla carovana sulla quale avete viaggiato per giorni e notti interi. Sollevate una nuvola di polvere, togliete il cappello e abbassate il bavero; vi passate una mano sugli occhi che bruciano tanto sono abbagliati dal sole, vi guardate attorno e non avete nessun punto di riferimento. Qui non c’è nulla: né strade, né ferrovia, né sentieri, neppure montagne. Ci siete voi, i vostri compagni di ventura, due cavalli, qualche arma e una distesa piatta e sconfinata che si apre per miglia e miglia, fin dove i vostri occhi stanchi riescono a mettere a fuoco. Muovete un paio di passi, esitanti, e cercate di capire quanto ancora immenso possa essere l’ovest.

Quanto è immenso l’ovest? Che sensazione devono aver provato i primi coloni americani che decisero di avventurarsi in territori inespolorati? Partire, lasciare la sicurezza di un luogo dove si vive da molto tempo, per inseguire una sorta di chimera, che all’epoca ovviamente non veniva percepita come tale ma era semplicemente un viaggio di conquista, occasione di guadagno. Fu il prezioso metallo giallo a far salire la febbre di conquista negli anni Quaranta dell’Ottocento e, seppur Lewis e Clark avessero già intuito quanto immensi fossero gli Stati Uniti d’America, molti altri in quel periodo se ne resero conto.

A. B. Gurthie nacque nel 1901 quando buona parte delle piste per la conquista dell’ovest erano state aperte e battute. Dagli stati dell’est verso l’ovest, coltivatori, cacciatori, allevatori e cercatori d’oro avevano condotto numerose carovane e guidato spedizioni. Nei racconti di Guthrie della raccolta “L’ultimo serpente” l’ovest è mitizzato, come accade negli scrittori che non hanno vissuto direttamente la conquista del west. C’è infatti una buona differenza tra gli scrittori che hanno vissuto la conquista dell’ovest e chi non l’ha vissuta, e la descrive per immagini, per storie raccontate o addirittura filtrate dal grande schermo (è del 1903 il film The great train robbery di Porter).

La conquista dell’ovest come mito che ha il sapore di leggenda, di eroica impresa, anche se i protagonisti dei racconti di Guthrie sono uomini con mille difetti, che arrivano subito alle mani – anzi, alle pistole – e spesso fortemente dipendenti dall’alcool.

“Il whisky non fa male qui,” disse. “Questa terra è così aspra e asciutta che lo si brucia subito. Si smaltisce in fretta. Non come in quegli stati del sud, dove una volta ho spedito un carico di mustang. Se ti fai tre o quattro bicchieri con quel clima, il corpo non li assorbe, e prima ancora che te ne accorgi, sei sbronzo.” [L’ultimo serpente, A. B. Guthrie, trad. N. Manuppelli]

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“Donne indiane in marcia” Charles Russel (1898)

Nell’ovest ci sono spazi immensi e tutto è più grande e sconfinato, quasi infinito, e qui anche i sentimenti e le emozioni vengono amplificate. Leggendo i racconti lo si percepisce molto bene: alcune figure sembrano quasi esagerate e i fatti narrati quasi assurdi. Il mito del west viene raccontato attraverso storie brevi, incisive, con il finale spesso a sorpresa o che ribalta tutto ciò che abbiamo creduto sino a quel punto; capisaldi sono la voglia di avventura, di riscatto, di libertà e la possibilità di infrangere la legge e vivere quasi senza regole.

E senza regole e umanità i visi pallidi si sono interfacciati con i nativi americani. Nei racconti di Guthrie spesso emerge la figura del nativo americano visto quasi sempre con la classica connotazione da ‘nemico’ da combattere. I visi pallidi sono sempre in trepidazione, quando percepiscono la presenza degli indiani, e non si fanno grandi problemi nell’aprire il fuoco contro di loro.

Nel racconto “Il grande demone” non si legge la solita ostilità tra bianchi e indiani, ma l’abisso culturale sì: quando lo spettacolo ‘pirotecnico’ termina, il giudizio di Due Piume è lapidario: “Visi pallidi (…) e le loro imprese da somari.”

Sarà per la mia passione per i nativi americani, ma ho sempre provato fastidio nel vederli dipinti come i cattivi; furono durissime le guerre contro i nativi americane, le tribù registrarono notevoli perdite e si ritrovarono a tutti gli effetti invasi dai bianchi. Nonostante la schiacciante vittoria Lakota, Cheyenne e Arapaho contro il Generale Custer a Little Big Horn, i visi pallidi determinati e meglio armati vinsero le cosiddette Guerre Indiane. Fu poi con il Massacro di Wounded Knee, Sud Dakota, nel 1890, che si chiuse definitivamente la questione indiana. A favore dei bianchi, come tutti sappiamo.

A volte, nello stordimento generale e con tutte quelle domande che lo tormentavano, arrivava a dubitare di se stesso. Si chiese se un uomo potesse commettere un crimine senza averne poi alcun ricordo, e a forza di domande, al di là della memoria, arrivare al punto di convincersi [L’ultimo serpente, A. B. Guthrie, trad. N. Manuppelli]

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“Sul sentiero di guerra” Charles Russsel (1895)

Il mito della conquista dell’ovest americano è costellato di imprese eroiche, personaggi bislacchi e alticci, capitani di ventura, fiumi d’alcool e centinaia di frecce e proiettili; l’ovest degli spazi aperti, delle libertà, dei fuorilegge che rappresentano la legge; è un periodo storico fatto di contraddizioni e contrasti, di battaglie e di armistizi. Ma il mito della conquista dell’ovest che ci è stato trasmesso non è ciò davvero fu, ma è quello degli ideali, di quello che avrebbe dovuto essere.

Un ulteriore interessante approfondimento a proposito dei racconti di A. B. Guthrie lo potete trovare sul blog Il mondo urla dietro la porta di Fabrizia: lei è stata la compagna di viaggio di questa bella lettura condivisa!

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Titolo: L’ultimo serpente

L’Autore: A. B. Guthrie (1901 – 1991)

Traduzione dall’inglese: Nicola Manuppelli

Editore: Mattioli 1885

Perché leggerlo: sono racconti intensi seppur brevi, ricchi di fascino, nostalgia e un pizzico di ironia; ideali per chi si ritrova spesso a sognare il vecchio west, per chi vorrebbe indossare degli stivali di pelle e cavalcare senza sella, per chi vuole immaginarsi tra gli indiani o nascosto dentro la tana di un castoro

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