Quando io avevo vent’anni frequentavo l’università, cercavo di superare gli esami di fisica e matematica e di non perdere il treno ogni sera per tornare a casa. Quando Zilfigarov Oleg Nikolaevič aveva vent’anni è tornato a casa a bordo del “tulipano nero”, sigillato in una cassa di zinco e i suoi amati genitori e fratellini non hanno neppure potuto vederlo un’ultima volta prima della rapidissima sepoltura.
Ho deciso di leggere “Ragazzi di zinco” di Svetlana Aleksievič (edizioni e/o, 316 pagine, 14 euro) perché nessuno mi ha mai parlato della guerra sovietica in Afghanistan e perché io all’epoca ero davvero troppo piccola per capire – ammesso che i telegiornali italiani parlassero di questa guerra.
Titolo: Ragazzi di zinco
L’Autrice: Svetlana Aleksievič è una giornalista e scrittrice bielorussa insignita del Premio Nobel per la Letteratura nel 2015. In italiano, oltre “Ragazzi di zinco” sono disponibili: “Preghiera per Černobyl’”, “Incantati dalla morte”, “Tempo di seconda mano” e “La guerra non ha un volto di donna”.
Traduzione dal russo: Sergio Rapetti
Editore: E/O
Il mio consiglio: “Ragazzi di zinco” è un libro da leggere per riflettere sulla guerra russo-afghana e in generale su tutte le guerre, un libro scritto benissimo, corale come una tragedia greca, che racconta una storia impossibile da accettare.
Era e non era una guerra e comunque, ammesso che lo fosse, una guerra strana, senza morti né prigionieri. Nessuno aveva ancora visto le bare di zinco. Abbiamo saputo solo dopo che già allora delle bare arrivavano in città, ma le sepolture avvenivano di nascosto, nottetempo, e sulle pietre tombali non c’era niente che potesse far sospettare le reali cause del decesso. Nessuno si chiedeva come mai di punto in bianco dei ragazzi di diciannove anni avessero cominciato a morire uno dopo l’altro, se era per la vodka, l’influenza o, magari, un’indigestione d’arance. Le loro famiglie piangevano, ma gli altri vivevano tranquilli, visto che non era toccato a loro. I giornali scrivevano che in Afghanistan i nostri soldati costruivano ponti, mettevano a dimora viali alberati dell’amicizia e che i nostri medici curavano donne e bambini del posto. [Ragazzi di zinco, Svetlana Aleksievič, trad. S. Repetti, cit. pagina 24]
La Vigilia di Natale del 1979 il popolo dell’Afghanistan se la ricorderà per sempre: fu allora che i carri armati sovietici entrarono nel loro Paese, pronti a spazzare via le fazioni religiose estremiste comandate dai mujahidin e dai mullah e riportare alle genti la fierezza dei principi comunisti di Marx ed Engles. Portare la pace con carri armati, fucili, granate e quelle bombe che quando scoppiano liberano nell’aria migliaia di schegge, pronte ad accecare o a dissanguare il corpo che le intercetta.
Dei tanti ragazzi sovietici inviati in Afghanistan per combattere molti di loro non avevano mai visto delle montagne così alte e belle, abituati alle pianure gelide della Siberia. Molti di quei ragazzi fino al giorno prima erano stati studenti e figli, e ora dovevano sparare senza esitazione, anche ad un bambino o a un anziano disarmato. In nome di che cosa? Ma dell’amore per la Madre Patria e dei suoi Principi!, per sterminare i mujahidin che nascosti tra le montagne tendevano agguati a chi credeva nella Repubblica democratica dell’Afghanistan!
Erano ragazzi giovani, come giovani erano gli americani paracadutati in Vietnam qualche anno prima. Erano ragazzi spesso poco addestrati, dotati di vecchie strumentazioni di guerra, risalenti ancora alla Grande guerra patriottica. Qualcuno era volontario, ma molti no e solo una volta atterrati a Herat intuivano cosa sarebbe loro successo. Così non restava che vendere tutto ciò che era possibile rubare in giro – coperte, giacche, guanti, stellette, materiali sanitari – per comprare vodka e droghe per stordirsi, per non pensare a nulla e per sparare a sangue freddo contro chiunque.
Ma la guerra era fatta anche di donne e ragazze che, volontarie o meno, atterravano a Kabul per prestare aiuto e soccorso alle truppe. Infermiere, dottoresse, virologhe e impiegate per le comunicazioni, spesso vittime di violenze sessuali da parte dei comandanti e dei racconti agghiaccianti di quei giovani che tornavano dalla missione senza né gambe né braccia.
Io avevo un graffio alla spalla e un trauma cranico, ma lui non aveva più le gambe… Ce n’erano tanti di ragazzi come lui, senza gambe, senza braccia… Fumavano, scherzavano tra di loro… Finché erano lì, in compagnia, riuscivano in qualche modo a farcela. Ma non ne volevano sapere di tornare in Urss e fino all’ultimo giorno pregavano di poter restare lì… Avevano troppa paura a tornare… In Urss per loro sarebbe cominciata tutta un’altra vita… [Ragazzi di zinco, Svetlana Aleksievič, trad. S. Repetti, cit. pagina 203]
Alla radio e alla televisione non traspariva nulla di tutto ciò che l’Afghanistan era in realtà: un grande tritacarne dove i ragazzi venivano gettati senza pietà. A Mosca la vita andava avanti: cinema, teatro, spensieratezza… mentre qualcuno sotto una tenda rovente moriva durante un’amputazione perché mancavano gli antibiotici e le siringhe. In Urss quando i ragazzi tornavano, interi o a metà, l’opinione pubblica si divideva: c’era chi li considerava assassini e chi li considerava eroi che avevano obbedito agli ordini.
Quando siamo ritornati a casa avevamo la speranza di essere accolti a braccia aperte. E invece abbiamo scoperto che la nostra esperienza, le nostre sofferenze, non interessavano a nessuno. [Ragazzi di zinco, Svetlana Aleksievič, trad. S. Repetti, cit. pagina 106]
Quanti di quei giovani russi sono stati uccisi e rimpatriati a bordo del tulipano nero, un velivolo carico di casse di zinco, tutte identiche tranne per il cognome e il patronomico della vittima tracciato col gesso o con la vernice. Quante mamme e papà, sorelle, mogli, mariti e amici, vivevano a Mosca e in altre città sovietiche, sempre in attesa di una buona notizia o di una lettera di chi era lontano chilometri e chilometri, sperduto tra le montagne o già fatto a pezzi in un torrido deserto sabbioso.
Aspetto la primavera, quando i fiori si strappano dalla terra e mi vengono incontro. Ho piantato dei bucaneve… Per udire al più presto possibile il saluto di mio figlio… Perché mi vengono incontro spuntando là sotto… Da dove è mio figlio [Ragazzi di zinco, Svetlana Aleksievič, trad. S. Repetti, cit. pagina 241]
Qualcuno dall’Afghanistan tornava vivo, ma non tornava più come prima della partenza. A parte le ferite o le mutilazioni mal curate più o meno gravi, qualcosa nei loro animi non era più come prima, come uno specchio che si rompe e va in mille pezzi, impossibile da ricomporre, non restituirà più nessun riflesso. E solo una volta tornati, dopo mille difficoltà e incubi, si rendevano conto che l’inferno che avevano vissuto era stato perfettamente inutile.
Non voglio neanche sentir parlare di errore politico! (…) Se è stato un errore, allora restituitemi le gambe… [Ragazzi di zinco, Svetlana Aleksievič, trad. S. Repetti, cit. pagina 131]
In “Ragazzi di zinco” ho ritrovato la stessa bravissima e immensa Svetlana Aleksievič che mi aveva raccontato della tragedia nucleare in “Preghiera per Chernobyl’“. La raccolta di queste interviste durò parecchi anni, durante i quali la Aleksievič incontrò madri e mogli disperate e i reduci, sconvolti perché l’Unione Sovietica si disinteressava totalmente a loro una volta tornati. Questo libro costò all’autrice numerose denuncie e censure, per aver rivelato verità decisamente scomode, sui militari e sul Partito stesso.
Io non posso far altro che suggerire la lettura a tutti quelli che a proposito della guerra russa in Afghanistan non sanno nulla, perché nella Storia ogni frammento s’incastra perfettamente con un altro e ogni evento genera una serie di effetti che possono portare a risultati del tutto inaspettati. Un libro che non nego che non sia facile da leggere, non per lo stile – perfetto nel presentare le voci che compongono il coro – ma difficile per il contenuto, drammatico, tragico ma assolutamente necessario per non dimenticare.
Zilfigarov Oleg Nikolaevič (1964 – 1984)
Fedele fino alla morte al suo giuramento di soldato. Svaniti i desideri, i sogni spezzati, hai chiuso presto gli occhi, figlio caro; Oleg, figlio e fratello, non abbiam parole per dirti tutto il vuoto che ci hai lasciato. La tua mamma, il tuo papà, i tuoi fratellini e sorelline.
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Una riprova in più (semmai ce ne fosse bisogno) di quanto siano inutili e crudeli le guerre. Anch’io non la conoscevo questa storia, grazie per averne parlato.
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Grazie Alessandra! Temo che questa storia la conoscano in pochi… Per fortuna la Aleksievič ha avuto il coraggio di scriverci su.
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Ho “conosciuto” la guerra tra russi e afghani poco tempo fa leggendo “Il cacciatore di aquiloni”, prima di allora ne ero totalmente all’oscuro. Sarà doloroso leggere la storia anche dal punto di vista russo, ma lo farò al più presto perchè queste sono le letture che insegnano davvero tanto.
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Ciao Marta! Anche io leggendo “Il cacciatore di aquiloni” (tra parentesi, bellissimo) avevo sentito parlare di questa guerra, ma lì per lì non mi ero documentata molto. Come dici tu, questa è una lettura dolorosa e faticosa dal punto di vista emotivo, ma necessaria. Leggerò la tua recensione!
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Quando l’autrice ha vinto il Nobel, il libro l’ho acquistato immediatamente – nemmeno un’ora dopo. Ancora non l’ho letto, però. Ho bisogno di trovare un equilibrio particolare per affrontare determinate letture. A dispetto di chi ancora si pone domande, secondo me un po’ ingenue, sul suo meritarsi il Nobel, sono sicura che merita già solo per aver dato voce ad un fatto storico tanto vicino e che tanto ignoriamo.
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Concordo con te, è necessario affrontare nel momento giusto questa lettura e ora, dopo aver letto due dei suoi libri, ho anche io la certezza che il Nobel è stato più che meritato!
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