Luigi Ottani e Roberta Biagiarelli | Shooting in Sarajevo

A Sarajevo durante la guerra furono uccisi 1.610 bambini e ragazzi. Molti di loro furono vittime dei cecchini. Li uccidevano intenzionalmente. I cecchini non sono soldati, sono assassini per scelta. Dal cannocchiale del loro fucile potevano vedere bene chi c’era nel mirino: quindi se uccidere o se lasciare vivere (…) Avevamo imparato molte regole di guerra e di sopravvivenza, ci eravamo abituati al pericolo e alla morte, alla sofferenza e alla desolazione che si provano quando si viene colpiti ingiustamente. L’unica cosa alla quale è impossibile abituarsi è la paura.
dal brano “Snajper” di Azra Nuhefendić, nel volume “Shooting in Sarajevo”

Il fotografo Luigi Ottani si ritrova a Sarajevo, nel 2015, assieme a Roberta Biagiarelli, esperta di storia dei Balcani e grande appassionata di questi luoghi. Il progetto che Ottani ha in mente è affascinante e ambizioso, poiché è intrigato dal fatto che, nella lingua inglese, la parola “shooting” ha un doppio significato: può voler dire sia “fotografare” che “sparare“. Dal 2015 al 2019 i due lavoreranno a questo progetto artistico.

Fotografare e sparare non è proprio la stessa cosa. Si inquadra allo stesso modo, si trattiene il respiro nello stesso modo, si preme il grilletto (…) Ci si rilassa dopo un click, ma non mi è dato sapere quale sia la reazione del corpo, del respiro, dell’anima dopo aver premuto il grilletto e ucciso.

dal brano “Vivevamo e basta” di Luigi Ottani

Luigi Ottani ritrae Sarajevo e i suoi abitanti da una prospettiva insolita: il fotografo, infatti, sceglie di posizionarsi negli stessi luoghi dai quali i cecchini sparavano durante l’assedio di Sarajevo, il più lungo della storia moderna, iniziato nell’aprile del 1992 e terminato nel febbraio del 1996.

Ad ogni scatto io ero il fotografo, ma avrei potuto essere il cecchino. Questo mi sconvolgeva.

dal brano “Vivevamo e basta” di Luigi Ottani

Le immagini di Ottani vengono sviluppate sotto forma di polaroid, dall’aria un po’ invecchiata, con l’aggiunta in post-produzione di un inquietante mirino, come quelli degli Zastava M76, le armi a disposizione dei cecchini durante la guerra.

Nel mirino, chi ammira le fotografie, vede delle persone che passeggiano serenamente in città; dei bambini; delle strade deserte; dei vecchi tram; delle finestre con i fiori sul davanzale; degli incroci stradali; delle automobili, ferme o in movimento.

Lo splendido libro che raccoglie queste fotografie tanto evocative quanto reali – così reali da aver fatto credere a più persone bosniache, una volta sviluppate, che fossero state scattate proprio negli anni Novanta – è accompagnato dai testi di autori e autrici italiani e bosniaci.

Photo by Nancy Hann on Unsplash

I contributi sono stati scritti da chi la guerra in Bosnia l’ha vissuta intensamente: come cittadino di Sarajevo, come giornalista inviato in guerra, come esperto di storia dei Balcani; restituendo così un vivido e toccante ritratto di quegli anni drammatici.

Uscire allo scoperto per le vie di Sarajevo negli anni Novanta era un rischio immenso. I cecchini erano appostati in ogni dove, seguivano le loro potenziali vittime dopo averle inquadrate nel mirino telescopico delle loro armi di precisione. I cecchini sceglievano chi doveva morire e chi doveva vivere. Talvolta ferivano la loro vittima, per attirare un’altra persona in suo soccorso e quindi ucciderne due in un attimo.

Era pericoloso passeggiare nei grandi viali senza la copertura dei palazzi. Attraversare i ponti sulla Miljacka. Camminare nelle vie parallele alle montagne o alle colline, sulle quali erano appostati i tiratori. Sostare nelle piazze. Fermarsi per soccorrere una persona ferita. Affacciarsi alle finestre per osservare fuori o bagnare i fiori.

I cecchini non sono come le bombe, che cadono e colpiscono a casaccio. I cecchini bersagliano, seguono e colpiscono proprio chi hanno scelto. Ma nonostante tutto i sarajevesi hanno continuato a vivere.

Ognuno di noi aveva iniziato a credere nel destino pensando: “Non ucciderà proprio me”. Tutti noi avevamo le nostre vie “fortunate”: percorrendole, eravamo convinti che non saremmo stati colpiti (…) Avevamo imparato molte regole di guerra e di sopravvivenza, ci eravamo abituati al pericolo e alla morte, alla sofferenza e alla desolazione che si provano quando si viene colpiti ingiustamente. L’unica cosa alla quale è impossibile abituarsi è la paura.

dal brano “Snajper” di Azra Nuhefendić, nel volume “Shooting in Sarajevo”

Ma chi erano i cecchini? Chi si celava dietro il mirino telescopico del fucile? Erano uomini, giovani o più maturi, che vivevano nei piani alti dei palazzi, in camere abbandonate – senza riscaldamento, senza corrente elettrica – con gli occhi puntati su una strada. Vicini

Esistevano anche i cecchini del fine settimana. Uomini che durante i giorni lavorativi si occupavano d’altro e il sabato e la domenica si appostavano sulle montagne o nei palazzi per sparare addosso alle persone. Arrivavano non solo da paesi limitrofi a Sarajevo, ma anche dalla Serbia e dal Montenegro.

Come la maggior parte dei sarajevesi, anche io non ero preparata a diventare un bersaglio. Nessuno mi aveva insegnato le regole della guerra in città. Non sapevo come comportarmi nel caso ti cadessero le bombe in camera da letto, o ti sparassero i cecchini mentre passeggiavi per le tue strade, oppure ti puntassero il mirino mentre stavi seduta nel tram andando in ufficio, o sparassero a tua figlia mentre la tenevi per mano, camminando per il centro della città in una giornata primaverile, bella e soleggiata.

dal brano “Snajper” di Azra Nuhefendić, nel volume “Shooting in Sarajevo”

Shoting in Sarajevo“, a cura di Roberta Biagiarelli, con le foto di Luigi Ottani e i testi di Luigi Ottani, Jovan Divjak, Azra Nuhefendic, Gigi Riva, Mario Boccia, Roberta Biagiarelli, Carlo Saletti, è un volume fotografico e testuale capace di commuovere e far riflettere allo stesso tempo.

Le immagini e le riflessioni degli autori e delle autrici colpiscono per tanti motivi. Per quanto mi riguarda, ciò che più di tutto mi ha colpita è una frase scritta alla fine del volume.

Non è rintracciabile il numero delle persone cadute per mano dei cecchini a Sarajevo, così come non si può risalire precisamente al numero degli snipers che popolavano la città. Nessun cecchino è stato condannato per quello che ha fatto.

Nessun cecchino è stato condannato per quello che ha fatto. E’ così che le vittime muoiono due volte.

Titolo: Shooting in Sarajevo
Autori: Roberta Biagiatelli e Luigi Ottani (con altri contributi all’interno)
Editore: Bottega Errante Edizioni
Leggilo se: sei interessato ad un percorso di lettura sulle guerre nei Balcani, in particolare all’assedio di Sarajevo (1992-1996)

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2 pensieri su “Luigi Ottani e Roberta Biagiarelli | Shooting in Sarajevo

  1. lisecharmel ha detto:

    ciao, hai letto anche La perfezione del tiro di Mathias Enard? E’ il racconto della stessa storia (anche se non ha nessuna ambientazione precisa, potrebbe essere il medio-oriente, ma anche una cittadina dei Balcani negli anni Novanta), però vista dagli occhi di un cecchino di 18 anni. E’ una lettura dura, perché il protagonista non prova nessun senso di colpa, eppure la sua attività lascerà non poche tracce su di lui…

    Piace a 1 persona

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